Gaslini
Ci sono storie che hanno un lieto fine e altre che non ce l’hanno.
Non è il lieto fine che rende una storia degna di essere raccontata ma le parole che vi stanno in mezzo, la strada che percorrono le vite e i pensieri.
La mia storia inizia trent’anni fa, in una casa al mare, una calda giornata di ferie estive, con
un bambino di sei anni che pedala nel giardino di casa su una splendida jeep rosso fuoco.
Un mal di testa forte lo costringe a fermarsi, a cercare la mamma, a vomitare all’improvviso, a correre in ospedale, in tanti ospedali fino ad approdare all’ospedale Giannina Gaslini di Genova.
La diagnosi è impietosa.
Quel giorno, il primo giorno di una vita familiare fatta di dolore e speranze, inizia il peregrinare di una famiglia incredula che cerca un appiglio per sopravvivere, una diagnosi diversa e più buona.
Inizia il giro dell’Europa, dell’America, consulenze con i migliori neurochirurghi del mondo.
La diagnosi prende sempre più la forma di una sentenza e le voci coscienziose dei luminari interpellati si fanno voce unica e frase reiterata:” Avete in Liguria l’eccellenza della neurochirurgia infantile, se ci fosse una speranza di salvarlo la speranza è lì, a Quarto, davanti al mare blu della città dei vicoli e di De André.
Il Gaslini sta.
È li da sempre, recettore di vite venate e di famiglie doloranti.
È lì, scontato come si danno per scontate le cose che ci sono sempre state.
È lì, silenzioso a fare un lavoro prezioso, a raccogliere pezzi di anime e rimetterle insieme, spalle grosse per reggere i genitori e sorrisi aperti ai bambini nelle corsie.
Muto alle orecchie di chi passa dalla passeggiata a mare.
Eppure, se metti un piede dentro il cancello di entrata ne senti il brusio.
Se inizi a muovere passi nei suoi corridoi ne hai chiara la voce.
E una volta che quella voce la senti, non puoi fare più finta di niente.
L’ultimo ricordo del bambino della jeep è dietro al vetro della rianimazione, una mano a salutare. Salutava me, la sua mamma e il mondo intero.
La vita si è congelata nel dolore più profondo ed è rinata calda nel desiderio di quella famiglia monca di un figlio, di creare alloggi per permettere ai genitori di avere giornate dignitose durante i lunghi mesi di degenza dei figli.
Loro privilegiati, non avevano potuto chiudere gli occhi di fronte a madri che per mesi avevano fatto delle sedie la loro unica casa, letto, sala e cucina.
Oggi leggo che un giornalista e scrittore che stimo moltissimo ha scelto di diventare voce narrante della vita pulsante e sanguinante del Gaslini.
E i ricordi familiari tornano a galla caldi.
È giusto raccontare, è obbligo stare ad ascoltare. È socialmente arricchente partecipare, unirsi alle voci di chi lì dentro vive, accarezzarne i sorrisi, asciugarne le lacrime, comprendendo problematiche e vittorie dei medici e dei bambini.
E se nella parola social la radice sociale è chiara ma spesso dimenticata, ecco rendiamola attuale ed attiva.
Seguiamo la pagina instagram e Fb della @Fondazione Gasliniinsieme e dell’ Istituto Giannina Gaslini
Ascoltiamo le storie attraverso la narrazione di Ettore Zanca , che vivrà tra le corsie i suoi prossimi mesi.
Narrazione sociale per essere mani tese oggi, sperando di non dover mai essere mani in attesa dall’altra parte, domani.
Irene Renei
www.donnechepensano.it