A pranzo
Un giorno qualunque di un anno qualunque della mia infanzia, all’ora di pranzo, tutti radunati intorno alla tavola, sentiamo suonare il campanello della porta di casa.
Il suono improvviso crea un attimo di silenzio assoluto.
A casa nostra il momento del pranzo e della cena è carico di rituali ed aspettative. E’ palpabile la sacralità del momento, concepito come uno dei pochi attimi in cui una famiglia che vive di corsa riesce ad interrompere il ritmo della vita per ricucire amore e legami, almeno due volte al giorno.
Mamma lavora e fa orari impossibili e se lei lavora tanto papà lo fa di più. E noi, in tre e con una bella differenza di età ci districhiamo tra università ,superiori ed elementari. Ma all’una e un quarto e alle venti tutto si ferma e la tavola apparecchiata diventa il nostro tres d’ union per raccontarci, ascoltare e commentare le nostre giornate. Tutto ha una gestualità precisa. I tovaglioli, ancora di stoffa, hanno 5 nodi diversi per poterne riconoscere l appartenenza .Mio padre e mio fratello maggiore sono i due capotavola. Sul lato più lungo siedono la mamma e mio fratello Michele ed io sono sola di fronte a loro. Anche la distribuzione del cibo ha un ordine ben preciso : Il primo ad essere servito è sempre mio padre e poi di seguito noi, in ordine di nascita. Mamma si serve per ultima e per ultima si siede.
Ora ecco, il campanello suona. Silenzio. Ci guardiamo con aria interrogativa. Mio padre si alza. “Vado io!” Seguiamo il leggero rumore dei suoi passi per il lungo corridoio .”Chi è?”…”Vuoi comprare qualcosa amico?” Risponde la voce dell’altra parte. Silenzio di papà. Silenzio in sala da pranzo. La porta si apre e mio padre ,davanti ad un uomo carico di magliette tra le braccia e un borsone sulla spalla esita qualche secondo per poi dire “Io non ho bisogno di nulla, grazie. Ma la mia famiglia sta pranzando. Se hai fame, puoi sederti a tavola con noi.”
Silenzio dalla porta. Silenzio in cucina.
Noi ragazzi ci guardiamo e spiamo insieme l’espressione sul viso di mamma. “Davvero amico? Io fame ce l ‘ho” “E allora entra” ..e nella mia testa immediatamente risuona la canzone del musical “Aggiungi un posto a tavola” che passa spesso in televisione in questi anni!
Per lui “scombiniamo” velocemente i posti a sedere ,per metterlo comodo vicino a mamma. Lei prepara l’ apparecchiatura e riempie il piatto, mentre papà fa le presentazioni. Lui inizia a chiacchierare e ci spiega che è qui da solo ma in Senegal ha moglie e figli .È laureato ma il lavoro non si trova e se si trova spesso non è pagato. Parla bene l’inglese e perfettamente l’italiano. Il francese è la sua lingua. È mussulmano e mamma lo rassicura dicendogli che nel sugo non c’ è carne di maiale (chissà se è vero, a me dice sempre che non c’è l aglio e io l’ aglio lo sento!)Vorrebbe riuscire a trovare un lavoro diverso ma è arrivato da poco meno di un anno e i conoscenti che qui aveva potevano offrirgli solo questo. Di quello che guadagna ,molto lo deve al capo del magazzino per pagare la merce che ha ,per così dire ,in “conto vendita”. Ci parla del Senegal con un amore straripante, della sua etnia, dell’origine della sua famiglia ed il pranzo scivola nella poesia della conoscenza: conoscenza di usanze lontane da noi ,di tramonti inimmaginabili; conoscenza di una persona che come tale racchiude sì mondi diversi ma sentimenti uguali. E il tempo si fa effimero e in un attimo è l ora per papà di tornare al lavoro. Appena si alza da tavola anche il nostro ospite si alza solerte. Ci salutiamo ed escono insieme.
Noi torniamo alla nostra normalità e nulla sappiamo e sapremo ancora per molti anni di barconi che affonderanno ,della disperazione di madri che affogano coi loro bambini. Nulla immaginiamo di un’Europa che chiuderà i confini, di un Italia che mentre accoglierà diventerà sempre più intollerante e ottusa.
Quel giorno c’era solo un uomo che aveva fame e mio padre ha fatto la sola cosa che qualsiasi uomo in qualsiasi tempo dovrebbe fare: tendere una mano e dare una speranza.