Misuriamo il cuore
Portateceli i vostri figli in una comunità mamma- bambino.
Portateli a vedere un’idea di destino.
Portateli all’ora della merenda, quando i bimbi fanno la fila saltellando per avere un pacchettino di crackers e un succo di frutta, uguale tutti i giorni, estate e inverno.
Portateli a vedere i loro sorrisi, mentre si siedono sui divanetti per mangiare, mentre controllano che i più piccini abbiano la loro porzione, fratelli di sangue e di necessità.
Portateli i vostri figli a vedere quegli occhi che si accendono per ogni persona che entra con un sacchetto: “È per me?” “Fammi vedere cos’hai!” “Amore sono scarpe ma sono grandi per te” e le mani frugano dentro e spingono verso il basso per tirare fuori un paio di sneackers di Gucci numero 36, trecento euro di diseducazione datemi da un’amica e servite tre mesi ai piedi di suo figlio.
“Invece mi vanno bene guarda!” dice riempiendo sì e no metà scarpa.
E Intanto gli altri scendono di corsa dal pulmino che li ha presi a scuola e all’asilo e ti saltano in collo urlando il tuo nome fra baci e sorrisi come se tu fossi la cosa più bella che si potevano aspettare.
Portateli i vostri figli a vedere un mondo senza play station, senza televisione, senza cellulari, senza scrivanie per fare i compiti se non un tavolone in comune che bisogna liberare se arriva la logopedista, la psicologa gli assistenti sociali.
Portateci voi stessi, adulti strutturati, in una casa famiglia, in un giorno qualunque.
Entrate in punta di piedi nelle vite di donne che hanno storie che non conoscete, culture a volte lontane, lingue che non capite e combattete la battaglia più dura, quella contro i mostri di un educazione stereotipata che è così ben radicata in noi da voler sputare giudizi.
Giudizi su madri inappropriate, disadattate, assenti di fronte ai pianti dei loro figli, a facce sporche di sugo fino ai capelli, a piedi nudi su pavimenti freddi, a vestiti che puzzano di stantio.
Andateci e scoprirete che ognuno ha la sua battaglia: le madri contro una vita che non si aspettavano, fatta di violenze indicibili, di povertà e sofferenze, di paure ed emarginazione, intrise di ignoranza di cui non hanno colpe.
I bimbi, contro un mondo che gli ha regalato ben poco di buono ma tante cicatrici nella mente e sul corpo. “Cos’hai qui Irene ?” “Un neo amore”
“E qui?” “Un altro neo” dico sorridendo di questo gioco già familiare coi miei figli da piccoli.
“Io ho questi, valgono?” mi chiede tirandosi su la maglietta, a cavalcioni sulle miei gambe.
” Si amore, valgono. Li facciamo valere.”
E la bocca mi si secca e il cervello mi va in panne, ma sorrido a lei, di fronte a quelle bruciature di sigaretta che hanno lasciato il segno e mi domando come l’essere umano possa essere capace di tanto male.
Ognuno ha la sua battaglia, conscia e inconscia e tu hai la tua, contro la tua superbia, contro la voglia che emerge e devi schiacciare di sentirti migliore di una madre che ha permesso orrori sui propri figli, migliore di quella ragazza che non vuole salire al piano di sopra per far visitare sua figlia dal pediatra.
” Prima di entrare qui non ce l’ho mai portata” ti risponde come se fosse normale.
Devi vincere te stessa e quella voglia di portateli via, prima uno, dopo una settimana guardi l’altro, forse meglio lui.
Lo pensi a casa tua, come potrebbe stare, cosa potresti offrirgli, poi devi spingere tutto giù, nel bidone della merda dei tuoi pensieri di benestante, perché loro una madre ce l’hanno ancora ed è lei che ha bisogno di aiuto se vuoi aiutare loro, almeno finché un giudice non metterà la parola fine.
Andateci in una casa famiglia, andateci per Natale, ma ricordatevi che Natale da loro è il 23 Dicembre, perché il 24 e il 25 il mondo non ha tempo per loro, il sindaco non ha tempo, il parroco non ha tempo, neanche Babbo Natale ha tempo.
Il ventitré in fretta e furia si torna da scuola, si fa un po’ di festa e saluti e baci, ci si rivede l’anno prossimo.
E quando a un mese dai festeggiamenti inizi a vedere madri che ti appoggiano la testa sulla spalla con gli occhi lucidi, che ti dicono che almeno per le feste vorrebbero cucinare un piatto della loro terra, per sentire, come diceva Proust, il profumo di un ricordo di sé;
quando nello stesso giorno in cinque, dieci, tra madri e figli ti stringono il braccio e ti chiedono “Ma tu vieni con noi, vero, a Natale?” ecco, tu in un attimo realizzi che l’unica cosa, l’unico desiderio che hanno è che qualcuno gli dedichi tempo.
Tempo per un bacio, per un disegno, tempo per una chiacchiera stupida tra donne, tempo per occupare tempo e non pensare.
Tu invece pensi.
Pensi a ieri mattina, quando hai visto la tua boccetta di Chanel più bassa di un dito e ti sei innervosita perché tua figlia lo usa come fosse acqua da bere, pensi ai soldi che spendi ogni anno per fare più bello il portone di casa e ai Natali in cui non si riusciva a camminare in sala dalla quantità di pacchetti che erano per terra ad aspettare di essere aperti dai tuoi figli.
Pensi a quanto sei piccola, a quanto tempo hai perso con gli occhi in una sola direzione, in quella più facile, nell’unica che vogliono farti vedere.
Pensi a quanto sei piccola tu, ad entrare là, nel loro mondo con la presunzione di aiutare loro quando invece sono loro ad aiutare te a diventare, forse, una persona migliore.
Irene Renei
Parole splendide che commuovono e muovono validi intenti insieme a bei pensieri di mente aperte.
Sono appena andata in pensione e sto maturando idee per non sprecare più il mio tempo.
Grazie