Il fiume
Ho fatto della mia casa un’ ambasciata con tutte le bandiere.
Entrata libera e nessuna coda allo sportello.
Ho messo in sala un enorme divano a elle: un divano che abbraccia.
Ma spesso, non paghi, tiriamo fuori la parte centrale per avere un letto a quattro piazze che ti attira.
Ti costringe a sederti con le gambe su e ti frega. Ti fa sentire a casa, rilassato e accolto.
E tu parli.
L’ambasciata accoglie di giorno e il divano fa parlare la notte, quando il silenzio e la poca luce sono tutte puntate su di lui.
E ascolta storie.
Non ha pretese di sapere.
Accoglie e ascolta.
L’ultima storia questa notte all’una, quando scendo dalla camera per bere un po’ d’acqua, l’ascolto anch’io.
Parla del Marocco, di un bambino di tre anni cresciuto dai parenti con la mamma in Italia a cercare fortuna.
Parla di un bimbo sereno e coccolato che ha pochi ricordi di sua madre.
Parla di un rientro in Italia in una regione calda e difficile, parla della tana del mostro. Parla di sigarette in bocca a cinque anni.
Io so di una madre sofferente, che voleva indietro suo figlio per poter pensare a scappare e per farlo doveva farlo rientrare lì, in quello scempio di vita che le era capitato.
Parla di quel passato ormai davvero passato e ride dei suoi dieci a scuola, in questa secondaria dove i professori lo elogiano ogni volta che apre bocca.
Parla del futuro in accademia, dopo la maturità.
Parla in quell’italiano corretto e forbito che mi fa venire un sorriso e la voglia di strappare il suo inutile ma indispensabile permesso di soggiorno.
Parla.
E il divano ascolta.
Io ascolto.
Come se parlassimo di un film.
Intervengo quasi mai, per la paura che quel fiume cambi corso.
Il fiume va dove trova spazi.
E se trova spazi procede tranquillo.
Non sia mai che una parola-tronco ostruisca questo fiume e che un domani questo esondi perché non gli ho lasciato spazio.
Sono grata per queste parole a me, che non sono niente, che non faccio niente.
Ho solo il merito di un grande divano che fa da casa e ti invoglia a parlare.
Aspetto la fine e saluto.
Sono quasi le due.
Marta ancora vestita che cerca di scaricare il green pass, la gatta che ignora il mondo e dorme in un angolo tra i cuscini e Rio che zampetta tra me e il primo piano perché il puzzle nel lettone è incompleto e vuole portarmi su.
Mi infilo sotto il lenzuolo e sorrido nel buio per questa sgangherata famiglia piena di ragazzi, di colori, di tradizioni mescolate.
Provo a ricordare come sia iniziata ma non trovo il bandolo della matassa.
Guardo mio marito che dorme e lo accarezzo col pensiero.
” Dove ti ho trascinato amore? O forse mi hai trascinato tu?”
Mi giro sul fianco e guardo la sveglia che col suo rosso ingombrante mi urla:
“Sono quasi le tre, dormi.
E non pretendere di sognare.
Che tu sogni già ad occhi aperti, in questa ambasciata senza documenti.”
Irene Renei