Scusa
Prima scena del Re Leone.
La scimmia Rafiki sulla punta estrema della rupe dei Re alza le braccia e mostra il piccolo Simba agli animali della Savana.
Loro si inginocchiano
Io piango.
Piango esattamente in quel punto, a due minuti dall’inizio, tutte le volte.
Quel mostrare mettendo in alto: ” Guardatelo, Questo cucciolo non passi inosservato perché è la vita che va, il futuro del regno illuminato dal sole.
Oggi piango perché le braccia si allungano per far vedere bambini ai soldati.
Anche loro sono il futuro.
Un futuro che esisterà solo se quei bambini cresceranno altrove.
Nessuno si inginocchia a loro.
Ma dovremmo farlo.
Un chiedere scusa mondiale per vent’anni buttati nel cesso perseguendo gli interessi di tutti, non di quei bambini, non di quelle madri.
Ricordo quanta fatica mi costasse quando amici e parenti chiedevano ” Lo posso prendere in braccio?”
Aveva appena mangiato, stava per dormire, c’era sempre una scusa buona per non essere del tutto contenta di metterlo fra braccia che non fossero mie, madre al primo figlio protettiva come una leonessa.
Ma chiudete un attimo gli occhi e pensate.
Alzare il proprio figlio al cielo sperando che mani sconosciute lo portino via.
Via dal suo paese, strappato al tuo utero e ai tuoi giorni, privato del ricordo di te.
L’atto di amore estremo di una madre.
Guardalo è qui in alto, più in alto di tutti .
Portalo via, portami via il respiro, portami via la vita ma dai una speranza a lui.
Una flebile speranza a me di non essere stata madre invano.
Un figlio preso da braccia in divisa.
Una madre uccisa anche se respira.
Non cambierà molto se domani i Talebani busseranno con le armi alla sua porta.
Ha già scritto lei nella sua storia la parola fine.
Io trattenevo il respiro quando il termometro segnava i quaranta gradi in un corpicino minuscolo mentre correvo in ospedale.
Trattenevo e li stringevo forte a me, alle mie braccia che erano metà rifugio e metà salvezza.
Tra le mie braccia non ti succederà niente.
Ci penso io.
Loro le braccia le alzano, lasciano andare, pregano che rimangano vuote.
Io il dolore di quelle madri posso solo immaginarlo per qualche secondo, poi devo cambiare i pensieri perché non lo reggo, il peso mi schiaccia, mi soffoca. Devo liberarmi.
Donna io, donne loro, madre io, madri loro.
Senza soluzioni in tasca rimango a guardare e mi inginocchio come gli animali della Savana, sopraffatta dal peso dell’impotenza e dell’ingiustizia.
Mi inginocchio e chiedo scusa alle madri afgane per quelle braccia alzate che sono resa alla vita e speranza per i loro figli.
E se questa è l’unica speranza che abbiamo lasciato loro, non mi devo inginocchiare solo io.
Si deve mettere in ginocchio il mondo.
E urlare a gran voce a chi scrive le sorti dei popoli che noi zitti a guardare non staremo più.
Irene Renei