Lui suona
In comunità l’inverno scorso, prima che il Covid chiudesse fuori me, gli abbracci e la speranza.
Lui è alto, piccolo uomo che pende un po’ a destra un po’ in avanti, come quei giocattoli con la molla che appena li tocchi oscillano in tutte le direzioni. Ha occhi grandi, talmente chiari che puoi guardarci dentro, ma dentro non vedi niente. Apre la bocca in grandi sorrisi dalle labbra rosa in quella faccia troppo bianca. Fa domande troppo piccole per i suoi dodici anni, troppo piccole per l’aria seria che si dà mentre ti parla. Non mi hanno dato la sua “chiave di lettura” e io non chiedo, non chiedo mai. Non voglio preconcetti nell’avvicinarmi a lui. Riuscirò a scoprirlo se vorrà scoprirsi.
Cerco un po’ di lui nella sua mamma e ritrovo lo stesso spirito infantile che è nel figlio in un corpo già provato dal tempo e dalle rughe. Mi fa tenerezza questa madre con l’aspetto di una nonna, l’atteggiamento di una bambina e la carta d’identità con il mio anno di nascita.
È come se fosse un gioco, in questa coppia mamma/figlio, dove tutti i pezzi sono stati mischiati e nessuno più si è preso la briga di rimetterli in ordine.
Intanto lui mi sfugge. Viene a salutarmi quando arrivo, quasi invade il mio spazio di respiro, mi avvicina gli occhi agli occhi mi dice “CIAO” ma quel ciao è un “Esisto, mi vedi?”. Ma poi mi gira le spalle e se ne va. Sparisce fino all ‘ora di cena, per riapparire, venirmi di nuovo vicino, troppo vicino, e poi sedersi al suo posto.
A volte si trasforma in un tornado di rabbia, per una parola, per uno sguardo, per qualcosa che a noi sembra niente ma per lui dev’ essere qualcosa di troppo pesante per tenerlo dentro, di troppo doloroso per non esplodere di rabbia e allora in due o tre bisogna tenerlo e schivare allo stesso tempo i suoi colpi. La chiave per calmarlo non ce l’ha nessuno, forse c’è ma ci vorrà tempo.
E poi c’è una stanza e c’è un pomeriggio qualunque in cui io sono lì. Da quella stanza sento i tasti incerti di un pianoforte scordato che credeva ormai di essere solo un portaoggetti.
Parlo con un educatore ma non posso fare a meno di ascoltare quello zoppicare di suoni che si fa melodia scordata e prende forma. È la sonata n 11 per pianoforte di Mozart.
Chiedo scusa, mi congedo e vado verso la musica.
Apro la porta e lo trovo lì, seduto dritto, impettito e fiero, con le mani sulla tastiera, delle mani bellissime che non avevo mai notato.
“Cosa suoni?” chiedo.
“Alla turca, di Mozart”
Mi si blocca il respiro in gola.
“Hai studiato pianoforte?”
“No, l’ho trovata su you tube e ho ricercato i tasti giusti”
Mi viene quasi da piangere, vorrei abbracciarlo ma mi trattengo da fare entrambe le cose.
“Suoni con una mano sola però. Ti piacerebbe farlo con due? Imparare che note stai suonando? ”
Il suo sorriso gigante basta per mille “Si” ma lui lo dice, lo urla, felice “Si, si Certo! Mi insegni tu?”
Mi affianco a lui e prendo una sedia. Lo scosto un po’ in là. Sono vent’anni che ho venduto per protesta il mio pianoforte, vent’anni che le mie mani e la mia memoria non attingono ai mille spartiti che ho dovuto imparare.
“Dai, mi fai Per Elisa?”
“Proviamo” rispondo. E inizio a suonare senza sapere come finirà.
Per una sorta di miracolo le mani sanno dove andare ma io non so dove stanno andando, lui mi guarda con gli occhi sgranati, io finisco e mi giro verso di lui.
“Mi insegni?
” Certo che ti insegno “
E una nota alla volta, mano destra e mano sinistra, un errore e un altro errore, lui non si arrende. Memorizza accordi alla velocità della luce, ha una facilità d’esecuzione impressionante. In meno di un’ora già si ascolta suonare a due mani un bel pezzo del brano di Beethoven. . Mi guarda incredulo, ci scambiamo un cinque che quasi ci spacca le mani, ridiamo. Lo stringo. “Bravo, sei bravissimo, non bravo”
“Si non ci posso credere! Quando torni? Quando andiamo avanti?”
“Fra due giorni sono qui e ci prendiamo un po’ di tempo per noi. Ok?”
“Ok! Ah Irene, posso farti una domanda?”
“Si”
“Ma tu qui sei un’educatrice?”
“No tesoro, sono una volontaria”
“Quindi non ti pagano per questo?!”
“No, mi paghi tu imparando”
“Grazie”
“Grazie a te!”
Abbiamo trovato la nostra chiave, era in uno spartito, una chiave di violino.