Donne, 25 Novembre
25 Novembre, una giornata che non vorremmo avere
Quando la mano ti colpisce in pieno volto, ti tiene stretta i polsi, ti sbatte la testa contro il muro certo che è violenza.
È il momento in cui non puoi più dirti altro, non puoi mentire allo specchio, a te stessa, al mondo
Ti devi guardare negli occhi e dirtelo chiaro.
” È violenza”
Ed è iniziata prima, molto prima, quando tu facevi finta di niente, nascondevi pensieri e realtà.
Perché in questo mondo ti abitui ad essere donna così, per mano a ferite che incessanti ti vengono fatte ,lasciandoti stretta tra l’incertezza di ciò che succede e il senso di colpa che s’insinua nel cuore ,il senso di colpa di essere femmina
Non mettere quel vestito, è troppo corto se esci da sola, diceva tuo padre e tu ti adeguavi a un mondo maschilista che ti voleva bella se in compagnia ma in jeans se camminavi da sola.
Era già violenza quando rientrando la sera in centro storico ti voltavi spaventata ad ogni rumore, tra la luce di un lampione e l’altro, accelerando il passo per arrivare al portone.
Era già violenza quando l’ecografia del tuo fagiolino veniva guardata dal direttore come la diagnosi di un cancro inestirpabile.
“Volevi dirmi questo? Sei incinta? ” con la voce inasprita e la mano sulla fronte.
Eppure ti sembrava fosse stato pieno di buone parole e pacche sulle spalle quando il tuo collega aveva comunicato che sarebbe diventato padre.
Ed era violenza il “Mi raccomando, minigonna e tacchi domani per la convention”
Che fastidio, pensavi, ma dovevi farlo.
Perché tutto era già iniziato prima e tutto piano piano diventava normale .
Era violenza quando a 20 anni lui ti diceva “L’importante è che mi laureo io,aiutami anche se rimani indietro, tanto basterà il mio di stipendio”
Era violenza il “Perché prendi la patente che tanto siamo sempre insieme? “
Tutto era normale ed era violenza.
E tu ti facevi domande sì.
Ma in fondo, se mi chiede aiuto…
E invece il problema è che ti ci abitui, ti ci abitui prima o poi a quelle piccole grandi violenze.
Tengo io il bancomat, se hai bisogno chiedi.
Certo chiedo, ma perché devo chiedere se lavoro anch’io.
Tengo il bancomat io, tanto tu stai in casa.
E se volessi uscire all’improvviso?
Se volessi prendere un aperitivo con Laura?
Era violenza, ma tu ci camminavi sopra da quando eri ragazzina, perché sei nata donna, per nessun altro motivo.
Era violenza quando il capo ti diceva che finito l’orario di lavoro avresti dovuto accompagnarlo a scegliere un televisore per il salone del suo Yacht ed era il primo giorno di lavoro e tu dici che non puoi ,ma lui insiste e tu di quello stipendio hai bisogno ed hai paura e vai.
E dentro quella porche i secondi diventano minuti interminabili e respiri l’imbarazzo e mastichi la paura, ma no la strada è quella giusta, verso il centro commerciale che non sei mai stata così felice di vedere.
Era violenza quando litigando lui ti diceva “Stai zitta!”
Era violenza quando si lamentava della cena in ritardo mentre tu ti affannavi a cambiare il pannolino al bimbo.
Il problema è che in un sentiero disseminato di piccole violenze si arriva a far fatica a vedere il limite, il burrone, la fine.
In un mondo che ti vuole bella, bellissima, truccata, col taglio all’ultima moda ma in cui passi in un attimo da bella a troia, porca, le farei vedere io;
In un mondo in cui se esci acqua e sapone fai schifo non ti curi, non ti do il lavoro perché sei sciatta, vogliamo la bella presenza;
In un mondo in cui se devi fare figli non ti assumo, se hai fatto i figli non ti assumo, se non vuoi figli non sei a posto col cervello, forse sei lesbica, io una lesbica non la assumo;
In un mondo così, svegliarsi con un pugno in faccia è solo l’ultimo, l’ultimo stadio di un veleno che fin da bambine ci instillano, una goccia alla volta, piano piano, nell’incuria assoluta del mondo.
Quel pugno va fermato distante dal viso delle nostre figlie, educando i figli maschi a un rispetto nuovo, che inizia dalle parole, dai ruoli che vedono in casa, dal rispetto che avremo per noi stesse, dalla forza che nelle donne da sempre dirompe, dal dolore di un parto che genera vita, dall’amore una per l’altra, mano nella mano, a trascinarci via, insieme, da un fango che non deve più inghiottirci.
Fermiamoci molto prima del pugno, alla prima parola, al primo sguardo che ci fa pensare, alla prima sensazione amara, che di solito è quella dell’anima, è quella giusta.
Giriamo i tacchi ,le scarpe da ginnastica,gli stivali e riprendiamoci la nostra vita, unica speranza di consegnare alle bambine di oggi un luogo diverso in cui vivere domani.
Che possano vivere il mondo con lo sguardo fiero e la testa alta.
“Vestiti come ti piace amore, cammina per strada tranquilla, ci vediamo stanotte, baciami quando rientri”
Testo di Irene Renei